di Elisa Gori

1.I indirizzi politica scolastica ed educativa durante il fascismo

1.1 La riforma Gentile

L’espressione Riforma Gentile, formula ormai nota a quanti si occupano di scuola e della sua storia, esprime sinteticamente la serie di decreti, seguiti da norme e regolamenti integrativi, emanati sulla base dei pieni poteri concessi dalla legge 3 dicembre 19231. Dato tale iter, privato di dibattito e voto parlamentare, la riforma non incontrò difficoltà in sede esecutiva, bensì quando “quel dibattito che in condizioni politiche diverse avrebbe preceduto l’approvazione di leggi tanto importanti e delicate, cominciò, sui giornali e nei partiti, subito dopo la loro promulgazione”2.
La copiosa riflessione storiografica ha mostrato come il fascismo avesse una forte necessità di formulare in maniera più definita la propria ideologia, vista l’eterogeneità delle forze e quindi dei rispettivi interessi e scopi, che lo avevano sostenuto; questa interpretazione è oggi condivisa dagli storici esponenti dei diversi ed opposti paradigmi interpretativi del fenomeno fascista3.
Anche a livello di politica scolastica permaneva la stessa esigenza “Mussolini, ed il gruppo dirigente fascista, erano giunti al governo senza disporre di nessun programma nel campo dell’istruzione”4 e quindi prezioso si dimostrò l’apporto di Gentile e della sua filosofia: “il fascismo, giunto al potere del tutto digiuno in materia scolastica e pedagogica accoglie la soluzione idealistica stabilendo così un’ambigua alleanza con un gruppo di eminenti intellettuali”5. L’incontro6, allora, fra la filosofia idealista - o più correttamente attualista - di Gentile e la politica di Mussolini portava vantaggi ad entrambi: Gentile aveva l’occasione di realizzare la propria riforma, sicuro dell’appoggio di un forte esecutivo e Mussolini aveva la possibilità di poter annoverare nomi di prestigiosi intellettuali fra i sostenitori del proprio governo, capaci di incidere in modo significativo nel mondo della scuola e della cultura, e quindi di conquistare il consenso di un vasto numero di insegnanti di ogni ordine e grado di scuola, nonché l’opportunità di aprire un percorso di incontro e complicità con il potere ecclesiastico. Inoltre “da parte di Mussolini v’era certamente un apprezzamento sostanziale del principio dello Stato etico che doveva poi, per il fascismo, determinarsi in quello di stato autoritario”7.
E’ interessante notare come la qualità di tale rapporto fosse determinata da una significativa, e poi determinante, intrinseca fragilità: la riforma aveva carattere aristocratico, poneva come suo centro la salvaguardia dei privilegi delle élite borghesi, promuoveva una scuola che, secondo il meccanismo della selezione, frenasse la mobilità sociale dei ceti medio-bassi. Ciò era, evidentemente, in aperta contraddizione con le aspettative e le volontà della classe borghese, prima e più cospicua base sociale ed elettorale del fascismo.
Questa mancata corrispondenza fu alla base delle divergenze che subito sorsero fra i fascisti e Gentile e che, insieme alle critiche espresse dall’opinione pubblica in merito soprattutto alla sua immediata applicazione (più che al contenuto), spinsero quest’ultimo a presentare le proprie dimissioni nel 1923. Mussolini, consapevole che tali dimissioni avrebbero potuto portare ad una crisi di governo, ritenne opportuno appoggiare Gentile smentendo in un comunicato ufficiale le sue dimissioni, e diramò inoltre (6 dicembre 1923) una circolare, divenuta poi famosa, ai prefetti di alcune città universitarie: “Considero la riforma Gentile come la più fascista fra tutte quelle approvate dal mio governo”8. Riguardo a tale affermazione9, che tendeva a stabilire una identità tra idealismo e presupposti della politica fascista e che finì per essere strumentalizzata da entrambe le parti, il giudizio degli storici è pressoché unanime nel ritenere che la riforma Gentile “non fu una riforma fascista, se mai liberal-restauratrice che Mussolini approvò con entusiasmo pari all’interesse di compromettere nel suo primo governo di coalizione nomi prestigiosi di provenienza non fascista”.10
Oltre alla ragione sopra esposta, molte ed aspre furono le critiche alla riforma mosse non solo dalle forze di opposizione11, ma anche dagli stessi fascisti. In estrema sintesi, questi ultimi contestavano l’estrema selettività, lo scarso controllo previsto da parte dello stato e le troppe concessioni riservate alla religione12; i socialisti, sia la corrente riformista che quella massimalista, e i radicali erano contrari ad una riforma classista ed antidemocratica che, a loro avviso, precludeva il diritto di ognuno di migliorare se stesso e la propria condizione; più frammentata la posizione dei cattolici, che nonostante la soddisfazione per l’inserimento dell’insegnamento religioso obbligatorio per le scuole elementari e dell’esame di stato, storici obbiettivi della loro politica scolastica, temevano la forte statalizzazione del sistema scolastico per l’implicito attacco che questo significava nei confronti di diritti educativi della famiglia e della chiesa.

1.2 Scelte pedagogico-filosofiche di riferimento e struttura della riforma

La critica situazione della scuola italiana negli anni in esame necessitava di una riforma in tempi brevi per risolvere gli ‘storici’ problemi dell’evasione dall’obbligo scolastico e quindi l’ancora alto tasso di analfabetismo, della mancanza di adeguati e salubri locali scolastici nonché di insegnanti con altrettanto adeguata formazione, delle ingenti difficoltà finanziarie dei comuni che ancora gestivano l’istruzione primaria e elementare, del riassetto dell’istruzione superiore.
Tale realtà era ben presente a Gentile che, anche negli anni precedenti alla riforma, si era occupato di tali questioni e aveva espresso con estrema chiarezza possibili indirizzi e strategie atti a risolvere la situazione italiana: “se non vuole restare indietro, con suo irreparabile danno, nella gara dei popoli moderni, [l’Italia] ha bisogno di rinnovare tutta la scuola, da quella per l’infanzia all’università; di rinnovarla o piuttosto crearla, poiché molte delle scuole che gli occorrono mancano affatto…il rinnovamento radicale della scuola è il maggiore dovere nazionale, che spetta all’Italia nell’atto che essa s’affaccia alla sua nuova storia”13. Divenuto ministro operò quindi in tal senso, verso la creazione di un sistema scolastico incentrato sui principi di ordine, gerarchia, disciplina e obbedienza all’autorità perché, solo così organizzato, avrebbe permesso, a suo dire, una efficace risoluzione della grave condizione scolastica ereditata dal periodo liberale. In questo progetto fortemente autoritario la scuola doveva, in prima istanza, formare-educare il soggetto al rispetto delle regole e dell’autorità e quindi fornire una istruzione funzionale alla futura destinazione sociale grazie ad un severo criterio di selezione rispetto al ceto di provenienza. La concezione élitaria del potere si tradusse nella creazione di una forte divaricazione tra cultura e professione e quindi fra formazione per la classe dirigente caratterizzata dal primato della cultura filosofico-umanista (liceo classico e università) e formazione per le classi subalterne, per i fruges consumere nati14 –secondo la nota formula di Gentile- caratterizzata al contrario da percorsi scolastici brevi (a livello elementare o post elementare) cui veniva negato ogni possibile sbocco verso studi superiori. Una scuola quindi aristocratica e selettiva15, caratterizzata dalla presenza di esami in entrata e in uscita per ogni ordine scolastico, per una formazione disinteressata, culturale e filosofica “studi di pochi, dei migliori, t?? a??st?? … i quali non possono spettare se non a quei pochi, cui l’ingegno destina di fatto, o il censo e l’affetto delle famiglie pretendono destinare al culto dè più alti ideali umani”16.
Alla luce di ciò ben si colloca la nota espressione del ministro “che le scuole tenute dallo Stato devono essere poche, ma buone: e potrei dire poche, scuole!”17, tesi a manifesta e dichiarata dal gruppo idealista18, entro il cui ambito culturale Gentile sviluppò e maturò la sua riflessione. Il compito-dovere etico dello Stato di educare19, la rivendicazione della formazione spirituale di fronte al nozionismo e della capacità di assimilazione dei concetti di fronte alla istruzione meccanicistica, da cui la critica alla didattica normativa, l’accento posto al rapporto educatore-educando e l’attenzione alla spontaneità creativa del bambino; e ancora la questione della libertà d’insegnamento, l’introduzione dell’introduzione dell’esame di stato20, le varie aperture nei confronti del privato, fosse o meno confessionale e infine la religione cattolica come base per la formazione delle coscienze dei bambini21, erano tutti motivi presenti e condivisi nel gruppo idealista, che Gentile promosse e sostenne quali contenuti fondanti della propria riforma. nel corpo della riforma.

1.3 La politica dei ritocchi e la fascistizzazione

L’affermazione egemonica del pensiero idealista e il ruolo da questo esercitato nella fase iniziale del governo fascista permisero l’attuazione della riforma22, ma la progressiva disgregazione del fronte idealista e l’altrettanto progressiva acquisizione di potere del partito fascista, segnarono l’inizio del graduale ma continuo processo di modifica della riforma.
“Messo di fronte alla scelta di mantenere immutati i rigorosi meccanismi di selezione della riforma minando così la propria base sociale, o di aprirsi alle richieste di maggiore permeabilità del sistema scolastico, il fascismo dovette optare per la seconda alternativa”23, anche e soprattutto in ragione del fatto che, la necessità di una scuola “accattivante ed ideologizzante e, contemporaneamente, rigorosamente intenta a mantenere ogni ceto al suo posto”24, capace di assolvere al compito di legittimare il sistema politico-sociale (compito da sempre proprio dell’istruzione pubblica), diventava ancora più importante “la dove altre forme di legittimazione politico-sociale sono assenti o presenti solo in parte”25. Dopo le definitive dimissioni di Gentile, questa volta accettate da Mussolini per motivi tattici, salì alla Minerva, su proposta del precedente ministro, il senatore A. Casati (3 luglio ‘24-3 gennaio ’25) che sostanzialmente difese la riforma e i principi ai quali i riformatori si erano ispirati, ventilando solo per il futuro l’ipotesi di qualche modifica. Forti erano però le spinte tese ad un processo di modifica più sostanziale, esplicite nelle parole dello stesso Mussolini che già nel dicembre del 1925 ad un congresso di insegnanti aveva detto “il Governo esige che la Scuola si ispiri alle idealità del Fascismo, esige che la scuola non sia non dico ostile ma nemmeno estranea al Fascismo o agnostica di fronte al fascismo, esige che tutta la scuola, in tutti i suoi gradi e in tutti i suoi insegnamenti, educhi la gioventù italiana a comprendere il fascismo, a nobilitarsi nel Fascismo e a vivere nel clima storico creato dalla Rivoluzione Fascista”26.
Nel 1925 gli successe P. Fedele (3 gennaio ‘25-9 luglio ‘28) e “la sostituzione dell’ultimo ministro liberale della Pubblica Istruzione con il fascista P. Fedele annunciò una nuova fase anche nella politica scolastica”27. Rispetto a questa nomina Codignola affermò: “conoscevamo il Prof. Fedele come studioso apprezzato e valente insegnante, ma altresì come uno dei più implacabili avversari della riforma”28; tale preoccupazione si rivelò fondata, e si concretizzò nei così detti “ritocchi” (provvedimenti, eccezioni, deroghe), che finirono per svuotare la riforma, cambiandone il volto e le fondamenta. Gentile, reagì prontamente, e dopo aver apertamente osteggiato il nuovo ministro29, pubblicò uno scritto polemico intitolato Il tradimento della scuola.
Fedele perseguiva l’adeguamento della scuola alle esigenze del regime e, proprio secondo tale disegno, si adoperò perché all’interno della scuola e ancora nel tempo e nello spazio del più ampio processo educativo, non vi fossero più tempi liberi, bensì “pieni di contenuti predeterminati e vincolanti, per la formazione di un tipo umano prefigurato, attraverso mezzi espliciti e suggestioni implicite”.30
Il processo di fascistizzazione, attraverso la pervasiva penetrazione del fascismo nell’istituzione scolastica31, proseguiva con rapidità tanto che la scuola, in particolare quella elementare, diventava strumento fondamentale allo scopo della creazione dell’ ‘uomo nuovo fascista’. Tale compito venne affidato all’onorevole G. Belluzzo (9 luglio 1928-11 settembre 1929)32 il quale in virtù delle sue conoscenze ed abilità in campo economico33 avrebbe potuto, secondo Mussolini, in base alle esigenze e necessità di quel settore, ridisegnare alcuni tratti della organizzazione scolastica. Oltre a questa motivazione, la scelta di Mussolini si pose come parziale rivincita dei gruppi di interesse economico, ai quali aveva sottratto l’istruzione professionale, per avocarla al Ministero della Pubblica Istruzione.34 Inoltre il ministro Belluzzo, in occasione del suo discorso alla Camera del maggio 1929, sintetizzò la sua idea di riforma in otto principali aspetti, tra i quali : “ 1) Dare alla scuola il libro di testo unico35 2) Coordinare e rinforzare l’insegnamento professionale, tenendo presente ed assecondando le iniziative private di carattere sindacale nel campo dell’istruzione operaia e rurale. Per tanto unificare l’insegnamento postelementare dandogli un carattere prettamente professionale, artistico, o industriale o agrario, o commerciale, a seconda delle attività prevalenti nelle province o nei Comuni.[…] 8) Perfezionamento della fascistizzazione di tutte le scuole non solo nei programmi, ma anche negli uomini”36
Oltre alla nuova attenzione in campo economico37, il regime perseguiva altri approdi ugualmente necessari alla sua piena stabilizzazione nell’ottica della ricerca di un consenso, più o meno motivato, che il fascismo perseguiva in forme sempre più manifeste; è’ infatti durante il successivo ministero di B. Giuliano (12 settembre 1929- 19 luglio 1932), che venne legiferato l’accordo con il Vaticano. Il testo definitivo dell’accordo assicurava con l’esame di stato la parità fra scuola pubblica e privata, confermava la religione cattolica come base dell’insegnamento per la scuola elementare e la introduceva, per le scuole superiori, facoltativa ma con obbligo della domanda di dispensa. Diverse furono le reazioni da parte degli stessi gerarchi del fascismo, alcuni accettarono il concordato come un patto, sebbene instabile, di non belligeranza, e quindi strategico verso l’obbiettivo di ampliamento e consolidamento del consenso al regime, altri invece lo recepirono come un pericoloso cedimento di Mussolini; al contrario gli intellettuale idealisti criticarono l’operato del duce perché lontano e contrario allo spirito della riforma, “l’educazione religiosa che nella mente di Gentile, di Croce, di Lombardo Radice a altri rappresentava la spiritualizzazione della cultura e la liberazione morale dell’educando, dette luogo sotto la pressione cattolica, all’insegnamento catechistico della scuola primaria e secondaria; l’educazione umanistica che per un Codignola faceva tutt’uno con la formazione storicistica e critica lasciò l posto al mortificante studio dei classici latini e greci, che riproduceva l’ideale dell’umanesimo gesuitico”38. Durante lo stesso ministero fu inoltre varata la normativa riguardante la modifica non solo terminologica quanto concettuale del ministero in Ministero dell’Educazione Nazionale39. La scelta del termine educazione svelava in modo inequivocabile gli interessi e gli scopi del regime, ma senza entrare nell’ampio e complesso dibattito -già ottocentesco- relativo al valore concettuale dei due termini, mi limito a ricordare come la creazione del complesso apparato parascolastico volto alla organizzazione e gestione del tempo e dello spazio nel suo complesso attuasse in modo esplicito questi obbiettivi.
Il cammino della fascistizzazione era ormai condotto in modo chiaro ed esplicito, lontani apparivano ormai infatti principi ispiratori della riforma Gentile; lo stesso Mussolini nel 1931 “si lasciò sfuggire che la riforma Gentile era un errore dovuto ai tempi e alla forma mentis dell’allora ministro”40; ne si interruppe con la nomina a ministro di F. Ercole (20 luglio 1932-24 gennaio 1935), che anzi agì subito in tal senso con il significativo provvedimento legislativo che riguardava l’avocazione41 delle ultime scuole elementari amministrate dai comuni autonomi al Ministero dell’Educazione Nazionale, ulteriore conferma della volontà di accentramento di tutta l’istruzione nelle mani dello Stato42. Il ministro si interessò anche alla revisione dei programmi per le scuole elementari nel 193443 e pur lasciando intatta la struttura formale dei precedenti, modificò profondamente l’orizzonte pedagogico di riferimento, attraverso l’introduzione di significativi inserimenti, quali ad esempio, l’istruzione militare come integrazione dell’educazione fisica, l’uso strumentalizzato della radio e del cinema come mezzi didattici-educativi, la massiccia diffusione nelle scuole del giornalino Il Balilla. Interessante, in tal senso la stessa introduzione alla Premessa: “La scuola italiana in tutti i suoi gradi ed insegnanti si ispiri alle idealità del Fascismo, educhi la gioventù italiana a comprendere il Fascismo, a nobilitarsi nel Fascismo e a vivere nel clima storico creato dalla rivoluzione Fascista”44. In sintesi l’opera del ministro si organizzò secondo la linea della fascistizzazione sempre più marcata, “ in funzione della quale gran parte dello stesso rinnovamento strutturale metodologico-didattico della scuola veniva pensato ed utilizzato dagli ispiratori e dai responsabili diretti ed indiretti dell’ M.E.N.”45. Lo stesso ministro dichiarava: “Il quadro è ormai completo: insegnamento religioso, preparazione politica e cultura militare: tre compiti (e uno solo) in virtù dei quali la scuola italiana, che fino all’avvento del Fascismo non si riconosceva altro compito che di impartire cognizioni e nozioni, s’è fatta veramente depositaria della più alta missione nazionale. Come voleva appunto il comandamento del DUCE del Fascismo e Capo della nuova Italia”46.
Con il successivo ministero di C. M. De Vecchi (25 gennaio 1935-15 novembre 1936) la parabola della fascistizzazione raggiunse i suoi più alti livelli grazie a quel processo di bonifica scolastica47, che operò nel senso di un ‘risanamento’ dell’amministrazione scolastica, secondo il principio della gerarchia e della massima centralizzazione. Forte dell’appoggio di Mussolini, il nuovo ministro “realizzò la più ampia riforma scolastica48 che l’Italia avesse visto fin allora: soppresse praticamente tutte le leggi avocando a sé ogni potere”49.
L’intervento del successivo ministro G. Bottai50(15 novembre 1936-5 febbraio 1943) raccolse le modifiche introdotte dal precedente e si mosse ancor più nell’ottica della completa fascistizzazione dell’istruzione, secondo un chiaro disegno per cui la scuola diventava portatrice di un progetto di educazione integrale51, nel quale la fascistizzazione diventava obbiettivo concreto di formazione, prima -e piuttosto che- la trasmissione di conoscenze. Una scuola strumento sia di unificazione sociale -ma capace e attenta a bloccare ogni possibile aspirazione di ascesa sociale delle classi subalterne- che di erogazione di forza lavoro, in stretta connessione alle nuove esigenze produttive del paese e quindi alla struttura corporativa e classista dell’economia. Motivi fondamentali del tentativo di riforma erano il “contenimento della disoccupazione e dei fenomeni ‘perversi’ di scolarizzazione ricorrendo non al numero chiuso, ma a una scuola di massa stratificata…il nuovo ‘umanesimo’ risultante dall’incontro fra la tradizione classico-umanistica, garanzia del ‘primato’ nazionalistico dell’Italia, e le culture della scienza e della tecnica; l’inserimento del lavoro produttivo dagli ultimi due anni delle scuole elementari come riconoscimento populistico della necessità della successiva divisione del lavoro… ”52. Nel rispetto di tali premesse, Bottai illustrò il suo piano di azione nella Carta della Scuola53, un documento programmatico, e non un testo legislativo, organizzato in XXIX dichiarazioni che motivano le ragioni e le basi pedagogico-politiche della proposta (I-VII), ed illustrano il quadro delle proposte di riforma della scuola italiana (VIII-XXIX). Di questo complesso disegno diventò legge soltanto l’istituzione della scuola ‘media unica’ 54, la qualificazione di ‘unica’ non derivava dall’essere l’unico e il solo corso di studi successivo a quello elementare previsto dallo stato, che infatti prevedeva anche la scuola artigiana e la scuola professionale (entrambe di durata triennale); ma dal presentarsi come unico raggruppamento dei corsi inferiori delle secondarie superiori, precedentemente suddivisi e frammentati nei rispettivi indirizzi dei corsi superiori.

2. Indirizzi di politica linguistica durante il fascismo e sue relazioni con la politica educativa- scolastica.

2.1 Prima ricostruzione storiografica: temi e problemi

Lo studio delle politiche linguistiche durante il fascismo è nato a partire dai primi ‘7055, del secolo appena concluso, grazie alle novità e metamorfosi che il dibattito storiografico nel suo complesso aveva introdotto a partire dalla seconda metà degli anni ‘60. “L’interesse è andato sempre più spostandosi su un necessario riesame del fascismo come regime: nel tentativo, anzitutto, di cogliere i caratteri essenziali di esso rispetto a quello liberale che per un sessantennio lo aveva preceduto, ma anche di individuare il peso e le conseguenze che la sua durata ventennale avevano avuto sul secondo dopoguerra, di cui prima d’allora poco o nulla si era ricostruito”56. In questa diversa prospettiva di analisi diventava possibile operare “il nesso fra storia del fascismo e storia d’Italia in una prospettiva generale di lungo periodo”57, articolando quindi una varietà di studi che, abbandonati sia il taglio esclusivo di denuncia politica, sia la centralità dell’analisi delle origini, spaziasse dal piano istituzionale, a quello economico, sociale e culturale, grazie anche alla grande rilevanza che avevano in quegli anni le indagini a livello locale, spesso attente all’uso di tecniche interdisciplinari.
In questo rinnovato clima di ricerca nasce e si sviluppa lo studio relativo alle analisi sulla cultura in epoca fascista. Centrale la riflessione di N. Bobbio che si era distinto agli inizi degli anni ‘70 come il rappresentante di una ‘scuola di pensiero’ che riteneva non solo impossibile ma storicamente e culturalmente errato ammettere l’esistenza di una cultura58 fascista; il fascismo aveva dato vita ad un serie di rituali e di formule culturali, aveva potuto contare su un vasto conformismo, ma non solo non aveva mai avuto una propria dottrina59, “non [aveva mai dato] vita ad una nuova cultura”60; testimonianza di tali rapporti fra fascismo e cultura il fatto che “l’opera destinata a rinnovare la cultura italiana dopo la liberazione non fu scritta in una delle dotte e gloriose università ma in una prigione di Stato”61. L’analisi di Bobbio, posta l’infondatezza di una cultura fascista, si interessava di spiegare il come e il perché della ‘sopravvivenza’ o del ‘vivacchiamento’ di una cultura indipendente e riteneva questo possibile proprio per le caratteristiche deteriori della cultura stessa, quali: lo storico disinteresse per la politica, e la sua separazione dalla società, in una parola la capacità di adattarsi. Interni a questa strategia gli intellettuali che l’autore, consapevole della particolarità dell’oggetto e proprio per non suscitare ulteriori ed accese questioni, presenta entro una casistica composta di otto diverse fasi rispetto al grado e alla forma di coivolgimento con il regime: dal “servilismo pervicace e continuato” alla “consapevole finzione”62. Al di fuori di questo schema gli intellettuali integralmente fascisti “per la maggior parte di mezza tacca” (J. Evola, G. A. Fanelli, etc. ) ma anche i “grandi intellettuali del fascismo” (G. Gentile, A. Rocco, G. Volpe), i quali non potevano a loro volta essere definiti come integrali perché la loro formazione umana e culturale era avvenuta prima dell’avvento del fascismo.
Di qualche anno precedente al saggio di Bobbio è il lavoro di Del Buono sulla stampa italiana durante il fascismo, interessante in sé e per il contributo di N. Tranfaglia che si occupa nell’introduzione di fare una prima rassegna della situazione degli studi, italiana e straniera. Lontano dai toni accesi del precedente testo, Tranfaglia tenta una ricostruzione del rapporto fascismo/cultura e subito nota, come dato caratterizzante, una scarsa pubblicistica sull’argomento dovuta sia ad una arretratezza, tutta italiana, rispetto all’utilizzo di metodi e strumenti delle scienze sociali; sia soprattutto alla persistenza di radicati pregiudizi che hanno posto i maggiori freni allo sviluppo della ricerca. Il primo di derivazione crociana sostiene che: “il fascismo non intaccò, né contaminò la vera cultura italiana, che rimase liberale, democratica ed antifascista; gli intellettuali che aderirorno al fascismo o erano degli intellettuali falliti o si piegarono per opportunismo o servilismo”; il secondo afferma che “tutti o quasi tutti hanno ‘tradito’ e per l’enorme difficoltà a restare incontaminati sotto una dittatuta e per una tradizione di servaggio dell’intellettuale in Italia che ha radici lontane e profonde”63. Tali indirizzi64 di analisi ipotizzavano, nel primo caso la permanenza di una cultura liberale, rimasta ibernata ed incontaminata, durante il ventennio pronta a riemergere dopo la liberazione; nell’altro un’improvvisa rottura e una conseguente catarsi della cultura e degli intellettuali grazie alla guerra di liberazione, quindi una profonda frattura fra la cultura degli anni ‘20 e ‘30 e quella post resistenziale. Entrambe le interpretazioni apparivano all’autore apodittiche, non storicamente verificabili, intrise di moralismo “tecnica eccellente per esorcizzare un fenomeno con cui l’establishment della cultura italiana, nel suo complesso non ha saputo e voluto fare i conti una volta per tutte. Un moralismo provvidenziale per evitare un esame di coscienza che s’annunciava estremamente costoso”65, incapaci di collegare significativi fenomeni di carattere economico e sociale degli stessi anni con tendenze culturali, ed infine poco attente e propense a collocarsi entro l’orizzonte di analisi della continuità fra Italia liberale-fascismo-Italia repubblicana66.
Lo sviluppo degli studi in tal senso, anche nell’ottica già citata di mantenere una più ampia definizione del termine cultura, intesa cioè in senso antropologico, ha permesso poi di allargare gli orizzonti di ricerca verso aspetti quali: il problema del consenso di massa alla dittatura, il rapporto della cultura con l’ideologia e le istituzioni del regime, l’organizzazione e la politica culturale durante il ventennio: in questo panorama vanno inserite le pubblicazioni di E. Tannembaum67 , di P.V. Cannistrato68, e il saggio di A. Asor Rosa69.
Nel dibattito storiografico di quegli anni strettamente connesso al tema della ‘cultura’ appariva quello del ‘consenso’; infatti l’avanzare degli studi nell’ottica del lungo periodo e della analisi delle ambiguità, aveva riarticolato lo studio del problema del consenso inserendolo in una nuova visione del rapporto fascismo/società. La storiografia contemporanea al fascismo aveva dato “giudizi troppo perentoriamente negativi sull’estensione del fascismo”70 affrontato nei termini della sola rilevanza dell’uso della forza e della violenza; la storiografia subito successiva, contraddistinta, come abbiamo già detto, da una forte passione civile, aveva “sotto il profilo scientifico, un modo di affrontare la materia troppo condizionato dal presupposto della derivazione della democrazia repubblicana dall’epopea antifascista”71. Nei primi anni 70 gli storici invece si interrogano “con sempre maggiore inesistenza negli ultimi sei-sette anni, quali erano le contraddizioni e la dialettica interna al regime, su quali basi negli anni trenta la dittatura poteva sopravvivere e consolidarsi. Che cosa bisognava intendere per ‘consenso’ delle masse, un elemento già invocato da Volpe per spiegare la forza del fascismo al potere ed affacciatosi a poco a poco anche nella storiografia del dopoguerra” 72. L’analisi del tema consenso ha in qualche modo aperto lo studio e il dibattito di un argomento fino ad allora rimasto nell’ombra come avvolto in ‘una zona di rispetto’, e cioè il legame fra l’opinione pubblica ed il fascismo sia dal lato del rapporto tra intellettuali e regime, sia dal lato della differente e composita adesione a modelli ideologici, stili comportamentali e scelte politiche.
E’ in questo rinnovato clima che l’incontro fra storici puri, storici della lingua e linguistici si compie grazie all’apertura problematica a favore di inesplorati terreni di ricerca attraverso l’utilizzo di diverse metodologie di analisi proprie dei diversi settori disciplinari73, secondo il presupposto del c.d. giacobinismo linguistico74, principio secondo il quale non è possibile l’assenza di una politica linguistica in un paese moderno. In tal senso allora la politica linguistica diventa variabile dipendente di processi economici, politici e sociali complessivi, entro i quali il suo studio si articola e si spiega. In questo orizzonte si comprende l’interesse degli studi per la questione del processo di unificazione linguistica75-sviluppatasi in Italia già dopo l’unificazione nazionale- che in relazione al nostro tema di analisi propone un interessante campo di ricerca che investiga il tentativo del fascismo di creare una lingua nazionale “in virtù della sua pretesa di essere, oltre che una rivoluzione politica, anche una rivoluzione del costume, della sensibilità, del gusto e in virtù della sua volontà di porsi come nuova, totale, anzi più esattamente totalitaria visione del mondo”76. Le analisi condotte77 hanno evidenziato che lo stabilire un forte nesso fra lingua e nazione significò per il fascismo poter legittimare, in campo teorico, le campagne per il purismo e per l’autarchia della lingua che negli anni trenta si tradussero in strumento di oppressione nei confronti delle minoranze etnico-linguistiche attraverso l’emarginazione delle parlate alloglotte nel territorio nazionale e la mortificazione di quelle indigene delle colonie78.
A partire da questi primi passi la ricerca si è poi concentrata sul linguaggio adottato da Mussolini nel rapporto con le masse79. Lo studio del lessico, dello stile e della retorica ha evidenziato quale tratto precipuo della lingua del duce l’“irrazionalismo linguistico e comunicativo” teso a generare negli ascoltatori un “comportamento reattivo ed emotivo prima che politicamente cosciente”80 attuato grazie all’utilizzo di figure retoriche, parole svuotate di senso accenti ritmici e comunicazione non verbale.
Solo successivamente l’interesse degli studiosi si è indirizzato del tema delle politiche linguistiche del fascismo in senso complessivo a partire dalla domanda: si può parlare di politica e pianificazione linguistica perseguita in tempi e a livelli diversi dal regime? E ancora “ il fascismo fu interessato e tentò di imporre e/o attuare una unificazione linguistica e culturale del paese, sia per ragioni di ordine pratico che di carattere politico? Propose ed applicò organicamente metodologie e strumenti efficacemente indirizzati alla diffusione e alla affermazione –contro i dialetti- della lingua italiana? O non si fermò piuttosto il regime, come in altri campi, a pure dichiarazioni di principio, a ripetute ma imponenti vanterie propagandistiche, per nascondere una realtà che non si voleva affatto cambiare?”81 . La risposta degli studiosi è unanime nell’affermare che nonostante la presenza di un dibattito coevo sul tema, condotto su riviste specializzate, la campagna di autarchia linguistica82 e la normativa relativa, non è storicamente corretto parlare di politica linguistica del fascismo, intesa come azione sistematica e di impatto a livello dei parlanti83, quanto piuttosto di politica linguistica durante il fascismo, considerando l’insieme disorganizzato e discontinuo di provvedimenti, dichiarazioni di principio, tendenze atte a gestire indirizzi conservatori, che peraltro già esistevano nella cultura italiana.
L’attuazione di tali indirizzi fu perseguita attraverso canali e strumenti sia di carattere rigidamente normativo che formativo-intimidatorio: i primi84 (leggi, circolari, fogli d’ordine, etc) erano relativi alla scritte pubbliche -toponomastica compresa-, all’onomastica, agli uffici pubblici, ai locali pubblici e all’istruzione; i secondi85 riguardavano messaggi e modelli di stile di vita diffusi tramite ogni possibile mezzo di comunicazione e occasione pubblica (scuola, radio, stampa, cinema, raduni, etc.).

2.3 Politica linguistica ed educazione linguistica

La tematica si colloca entro il campo di analisi complessivo sulla politica linguistica durante il fascismo, precedentemente esposta, ma gli studi specifici in questo ambito particolare risultano, ancora oggi, numericamente esigui ed isolati.: il volume di G. Klein, La politica linguistica del fascismo, e il saggio di D. Ragazzini, I programmi della scuola elementare durante il fascismo. Il caso dell’educazione linguistica86.
Opere monografiche ed articoli su periodici relativi alla storia della scuola e dell’educazione nel suo complesso arricchiscono il panorama, ma quasi unicamente rispetto al tema del dialetto e della grammatica87, non affrontano invece –se non molto marginalmente- lo studio delle lingue delle minoranze. L’analisi che segue offrirà quindi una prima presentazione di questi aspetti.
Gli studi condotti in merito al dialetto durante il periodo fascista, proprio per la natura stessa del tema, hanno favorito e promosso occasioni di incontri e sviluppi tra discipline e metodologie diverse fra loro: dallo studio del ruolo del dialetto in relazione al tema della unificazione linguistica al rapporto fra dialetto e nella lotta all’analfabetismo, alla ‘gestione’ del/i dialetto/i e quindi delle scelte politiche -anche scolastiche- promosse, adottate, e poi modificate durante il governo fascista.
I lavori di ricerca ricordano la figura di G. Lombardo Radice, autore dei programmi per la scuola elementare del 192388, che rivendicò l’importanza del dialetto89 quale strumento per l’apprendimento della lingua italiana, considerandolo non tanto come un dato linguistico da cui partire ma come un dato culturale, come la forma di vita, espressione della cultura, della tradizione e del mondo interiore dell’alunno.
Entro questa riflessione si collocava il cosiddetto metodo ‘dal dialetto alla lingua’90 che poneva il dialetto in posizione subalterna rispetto alla lingua italiana, quale strumento da utilizzare solo in forma ‘contrastiva ’, cioè come dato comparativo all’italiano e solo a partire dalla terza elementare91. “ La comparazione avviene fra la lingua che l’alunno possiede e quella che viene acquistando dal suo maestro e dai suoi libri. Viene così ad assumere straordinaria importanza didattica, nelle scuole del popolo, il dialetto, il tanto aborrito e disprezzato dialetto, che è –e come!- una lingua, viva, sincera, piena, ed è la lingua dell’alunno e perciò (se è vero che il presupposto della lezione è l’alunno) l’unico punto di partenza possibile ad un insegnamento linguistico”.92
Il dibattito, che subito nacque intorno all’inserimento del dialetto nei programmi per la scuola elementare, coinvolse non solo gli insegnanti, che si dimostrarono –per la maggior parte- non favorevoli se non ostili a tale introduzione, ma registrò anche la partecipazione di linguisti, intellettuali e uomini politici. Nonostante alcuni apprezzamenti, rintracciabili, come è chiaro, all’interno della cerchia idealista, la posizione, che assunse presto un ruolo preminente, fu quella di una manifesta contrarietà ed opposizione a tale provvedimento, motivata sia da ragioni di ordine teorico che pratico. Le prime, che si esprimevano intorno all’interrogativo sulla opportunità dell’insegnamento del dialetto, muovevano dalla convinzione che questo insegnamento avrebbe finito per danneggiare il principio di italianità, quell’unità linguistica nazionale che era, e che doveva ancor più diventare, espressione e manifestazione di uno spirito nazionale forte e coeso. In questa motivazione si leggono chiaramente valutazioni di carattere politico che vanno oltre il dato puramente linguistico e che richiamano ancora una volta il problema dell’unità nazionale, con riferimenti più o meno espliciti al problema del nazionalismo e “all’ossessionante tendenza al centralismo autoritario e alla cancellazione di ogni traccia di vita regionale”93 . Le avversioni di carattere pratico ed operativo vertevano intorno al problema della trascrizione, della scelta del tipo di dialetto da adottare (quello degli alunni? Quello dell’insegnante?) e non ultimo quella della ‘eventuale’ formazione dei maestri.
Nonostante il dibattito e le aspre polemiche e il sostanziale fallimento del metodo “dal dialetto alla lingua”- mai veramente consolidatosi nella didattica- il dialetto rimase all’interno dei programmi scolastici, ma i successivi sviluppi storico-politici sanzionarono la vittoria del fronte avverso. Nel 1925 il ministro P. Fedele cercò di ridimensionarne l’importanza abolendolo dalle prove d’esame di ammissione alle scuole medie inferiori e eliminando l’invito, espresso da G. Lombardo Radice, a proporre temi con riferimenti alla vita e alle realtà locali94; successivamente, nel 1929, la Commissione ministeriale per i libri di testo con la creazione del testo unico eliminò i precedenti sussidiari di cultura regionale e i libri di esercizi di traduzione dal dialetto
La completa cancellazione del dialetto arrivò con i nuovi programmi del 193495 firmati dal ministro Ercole: “se in II rimane l’attenzione agli esercizi di correzione degli errori ‘suggeriti’ (‘23) dal dialetto o comunque ‘favoriti’ (‘34), in III scompaiono gli esercizi in riferimento al dialetto e gli esercizi di traduzione da esso di proverbi, indovinelli, novelline, così come in V scompare il ‘sistematico riferimento al dialetto’ e gli esercizi di traduzione indicati’”96. Le motivazioni di queste nuovi indirizzi di politica scolastica risiedevano e rispondevano al nuovo clima caratterizzato dalla cosiddetta autarchia linguistica “cioè dal tentativo di eliminare qualsiasi elemento giudicato ‘disturbatore’ della lingua nazionale’”97 e quindi l’unificazione linguistica, come condizione necessaria di una completa omologazione politica, diventava obbiettivo primario da raggiungere attraverso qualsiasi strumento.
La qualità delle modifiche dei provvedimenti normativi inerenti la presenza del dialetto nella scuola, si riconosce anche nella normativa indirizzata alle lingue minoritarie ( le minoranze tedesche in Alto Adige e nella Venezia tridentina, e quella serbo-croata e slovena in Venezia Giulia98) che da lingue scoraggiate diventeranno nel corso degli anni vietate.
La riforma del 1923 legiferava “In tutte le scuole elementari del Regno l’insegnamento è impartito nella lingua dello Stato. Nei comuni nei quali si parli abitualmente una lingua diversa, questa sarà oggetto di studio in ore aggiunte. L’insegnamento della seconda lingua è obbligatorio per gli alunni alloglotti, per i quali i genitori ne facciano richiesta…..”99. E’ interessante notare l’osservazione della Klein che mette ben in luce come questa formale richiesta finisse per esporre genitori e studenti al “pericolo di essere bollati come ‘antinazionali’ e ‘antifascisti’ con le prevedibili conseguenze”100>.
L’art. 17 “a cominciare dall’anno scolastico 1923-24, in tutte le prime le prime classi delle scuole elementari alloglotte l’insegnamento sarà impartito in lingua italiana” esprime chiaramente il progetto di graduale italianizzazione di dette scuole che doveva concludersi con l’anno scolastico 1927-28; inoltre la conoscenza dell’italiano diviene indispensabile per il passaggio alla classe superiore101; uguale destino per le scuole medie e superiori, dove già dal 1924 le lingue minoritarie erano considerate e trattate come una seconda lingua. Successivamente con il RD 22 novembre 1925 n. 2191 “Disposizioni riguardanti la lingua d’insegnamento nelle scuole elementari” venne definitivamente soppresso l’insegnamento di tutte le lingue minoritarie ed anche la possibilità delle ore aggiuntive.
La stessa tipologia di provvedimenti colpiva anche in corpo insegnante. Il R.D. n.2185102 prevedeva infatti per gli insegnanti alloglotti l’abilitazione all’insegnamento della lingua italiana, non riconosciuta valida se rilasciata prima dell’annessione, tuttavia gli stessi insegnanti erano invitati, nel maggior parte dei casi, a scegliere la via del prepensionamento piuttosto che quella degli esami abilitanti, e il successivo R.D. del 1925 ricordava l’obbligo della abilitazione e prescriveva il termine di due anni per il conseguimento; inoltre per gli insegnanti ritrovatisi senza possibilità di insegnamento nelle scuole pubbliche, era difficile anche l’insegnamento privato colpito da altrettanti regi decreti. Inoltre, nel 1928103, al fine di accelerare il processo di italianizzazione fu disposto il trasferimento di un consistente numero di insegnanti allogeni in altre regioni italiane. Come risulta evidente “questi provvedimenti linguistico-legislativi non avevano ovviamente solo una funzione linguistico-strumentale, di adoperare cioè la lingua italiana anziché un’altra, ma avevano un preciso scopo di integrazione nazionale”104.
Sulla base della normativa nazionale ogni provincia con popolazioni alloglotte poteva poi stabilire ulteriori prescrizioni, ad esempio il RD 10 marzo 1927, n. 480 “Programmi d’esame per le lingue slovena e serbo croata nei Regi istituti medi d’istruzione”, richiedeva l’abilità linguistica per l’italiano (certificata attraverso una prova scritta di traduzione dalla lingua minoritaria e una prova orale) per la licenza della scuola complementare e per l’ammissione agli istituti medi; il D.M. 11 settembre 1931 prevedeva la soppressione dell’insegnamento dello sloveno nei ginnasi di Gorizia e Tolmino, negli istituti magistrali di Gorizia e Trieste (sostituito con la lingua inglese), nel tecnico e nel magistrale di Udine (sostituito con la lingua francese)105.
Di fronte a questo incessante processo di italianizzazione forzata la risposta di sopravvivenza delle lingue minoritarie, e delle proprie tradizioni, si concentrò nel tentativo di trovare altri luoghi, tempi e spazi che fossero diversi e lontani da quelli ufficiali, durante i quali salvaguardare e tramandare il proprio patrimonio di conoscenze. Bloccata la strada dell’insegnamento privato si aprì quelle delle cosiddette scuole catacombe106 , scuole clandestine segretamente appoggiate dai singoli comuni e in alcuni casi anche dal clero locale.
L’analisi fin qui condotta mostra che la “politica scolastica per l’insegnamento linguistico in generale era tesa non tanto all’elaborazione di tecniche didattiche quanto a considerazioni di politica linguistica”107, cioè al tentativo, attraverso l’educazione linguistica, di esercitare il controllo socio politico e l’integrazione nazionale, di conformare e uniformare il singolo all’interno di un sistema totale e totalitario dove si perde e si annienta ogni espressione e carattere di individualità.

Ma questa battaglia ‘ideale’ condotta con armi quali l’educazione linguistica (ma anche la campagna antidialettale, la lotta per la purezza della lingua contro lingue minoritarie, esotismi e forestierismi) riuscì davvero a tradursi in modo incisivo sulla vita quotidiani degli italiani? La risposta generale a questo interrogativo sembra doversi esprimere in una negazione, e cioè nella constatazione del sostanziale fallimento del regime in questo campo.

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1 In tal senso contributi storici hanno offerto, e ancora offrono, una riflessione sulla continuità storica italiana, facendo notare come due importanti riforme dell’istruzione (legge Casati e riforma Gentile), che modificarono totalmente il quadro precedente, furono approvate secondo la stessa procedura. “Ancora una volta, come già nel 1859 per la scuola che stava per trasformarsi in italiana, fu in un periodo di pieni poteri del Governo che la nostra scuola modificò ordinamento e programmi” I.Zambaldi, Storia della scuola elementare in Italia, LAS, Roma, 1976, 559.“Leggi che strutturavano o ristrutturavano, tutto il sistema scolastico non furono né preventivamente discusse né votate dal parlamento” D. Ragazzini, La storia della scuola italiana. Linee generali e problemi di ricerca, Firenze, Le Monnier, 1983, p 45.

2 R.Gentili, Riforma e controriforma della scuola, in AA.VV., Ernesto Codignola in 50 anni di battaglie educative, Firenze, La Nuova Italia,“Scuola e città”, n.4-5, aprile-maggio, 1967, p.209.

3 La storiografia sul periodo fascista è molto ampia e ricca di molteplici interpretazioni e letture. Non è quindi possibile proporre, in questa sede, alcuna esposizione sul tema, rimando unicamente alla lettura di alcuni testi che hanno segnato sviluppi e percorsi di questo dibattito, che ancora oggi produce interessanti saggi e riflessioni. C.f.r. A. Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario, Torino, Einaudi, 1965;R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, Torino, Einuadi, 1965; R. De Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925, Torino, Einuadi, 1965; G. Salvemini, Le origini del fascismo in Italia, (Lezioni di Harvard), Milano Feltrinelli, 1966; R. De Felice, Mussolini il fascista. L’organizzazione dello stato fascista 1925-1929, Torino, Einuadi, 1968; R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1969; P. Togliatti, Lezioni sul fascismo, Roma, Ed.Riuniti, 1970; R. De Felice ( a cura di), Il fascismo: le interpretazioni dei contemporanei e degli storici, 1970; G. Quazza, (a cura di), Storia del fascismo e storia d’Italia, Torino, Einaudi,1973; R. De Felice, Mussolini il Duce. Gli anni del consenso 1929-1936, Torino, Einaudi, 1974; M A. Ledeen (a cura di), R. De Felice, Intervista sul fascismo, Roma, Laterza, 1975; G. Quazza, Resistenza e storia d’Italia. Problemi e ipotesi di ricerca, Milano Feltrinelli, 1976; G. Quazza [et al.], Storiografia e fascismo, Milano. Franco Angeli, 1985; N. Tranfaglia, Labirinto italiano: il fascismo, l’antifascismo, gli storici, Firenze, La Nuova Italia, 1989; R. De Felice (a cura di), Bibliografia orientativa del fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1991; E. A. Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943, Bologna, Il Mulino, 1993; P.Chessa ( a cura di), R. De Felice, Rosso e nero, Milano, Baldini e Castoldi, 1995; A. Del Boca, M. Legnani, M. G.Rossi (a cura di), Il regime fascista: storia e storiografia, Roma-Bari, Laterza, 1995; E. Galli della Loggia, La morte della patria, Roma-Bari, Laterza, 1996; N. Tranfaglia, Un passato scomodo. Fascismo e postfascismo, Roma-Bari, Laterza, 1996; S. Courtois [et.al], Il libro nero del comunismo, Milano ,Mondadori, 1997; F. De Felice (a cura di), Antifascismi e Resistenze, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1997;R. De Felice, Mussolini l’alleato. II La guerra civile 1943-1945, Torino, Einuadi, 1997; R. De Felice, Il fascismo: le interpretazioni dei contemporanei e degli storici, Roma-Bari, Laterza, 1998; M. Flores, (a cura di), Nazismo, fascismo, comunismo. Totalitarismi a confronto, Milano, Mondadori, 1998; E. Collotti (a cura di), Fascismo e antifascismo. Rimozioni, revisioni, negazioni, Roma-Bari, Laterza, 2000; A. De Bernardi, Una dittatura moderna, Milano, Mondadori, 2001.

4 Jurgen Charnitzky, , Fascismo e scuola. La politica scolastica del regime (1922-1943), Firenze, La Nuova Italia, 1996, p.XI. “Nel campo scolastico in realtà le posizioni di regime furono contraddittorie e spesso controverse. La fondamentale incongruenza, peraltro consisteva nel fatto che la politica scolastica si muoveva alternativamente su due poli contrapposti. Da un lato il principio dello Stato-tutto, etico autoritario di matrice hegeliana e di adozione nazionalistica; dall’altro un impegno innegabile di liberalizzazione, un impegno che svuotando l’esclusivismo post-risorgimentale della scuola gestita dallo Stato sembrava contraddire alla radice le stesse ispirazioni dell’ideologia fascista”. M.A. Manacorda, Momenti di storia della pedagogia, Torino, Loescher, 1977, p.164.

5 T. Tomasi, Idealismo e fascismo nella scuola italiana, 1969, p.70

6 “L’incontro tra idealismo e fascismo si verificò nel momento culminante della crisi ideologica e politica della democrazia, sulla base di un comune atteggiamento critico e negativo verso la società italiana del tempo, che lasciava perciò aperte tutte le possibilità sui futuri rapporti…Almeno inizialmente, quindi, da parte idealistica l’alleanza con il fascismo fu considerata di carattere provvisorio e strumentale, in aderenza al presupposto che la politica attuare i superiori disegni della cultura. […]Dal canto suo il fascismo, nell’iniziale periodo rivoluzionario, veniva a trovarsi vicinissimo alle posizioni ‘idealistiche’, tanto da dare anch’esso alla riforma della scuola l’importanza di un atto politico qualificante e decisivo ”. V. Pirro, La riforma Gentile e il fascismo, in “giornale critico della filosofia italiana”, anno LII, fasc.III, luglio settembre 1973, Sansoni, Firenze, pp.431-433.

7 D.B.Jovine, La scuola italiana dal 1870 ai giorni nostri, Roma, Editori Riuniti, 1967, p.260.

8E.D. Susmel ( a cura di ), B. Mussolini, Opera Omnia, Firenze, La Fenice, vol. XX, 1951-1963, p. 366.. Può essere interessante notare che lo stesso Mussolini in occasione del discorso pronunciato il 24 marzo 1924 relativo alla illustrazione del suo programma di governo non solo non ricordasse la riforma Gentile fra le norme emanante, ma alcuni storici hanno letto nella affermazione “non tutte le riforme del Governo fascista, che ha varato 1.700 leggi, sono perfette, perfettissime. Le perfezioneremo.”(in Scritti e discorsi di Benito Mussolini, Milano, Hoepli, 1943, 1934, Vol.IV, p.79) una adombrata possibilità di revisione dell’opera gentiliana. C.f.r. R.Gentili, op.,cit, p.210.

9 Ecco il parere dello stesso Gentile riportato in un’intervista da lui rilasciata al Corriere italiano il 17 gennaio 1924: “Domanda:In che senso Lei crede il Presidente abbia chiamato la sua riforma la più fascista di quelle fatte dal governo nazionale? Risposta: Perché essa è tutta ispirata ad un alto concetto dello Stato, supremo moderatore ed organizzatore della vita nazionale, ed è nello stesso tempo rispettosissima di ogni iniziativa particolare .E’ una riforma a un tempo vigorosamente conservatrice e coraggiosamente rivoluzionaria”. G. Gentile, Il fascismo al governo della scuola, Palermo, Sandron, 1924, p.252. Discorsi e interviste raccolti ed ordinati da Ferruccio E. Boffi.

10A.S.Rugiu, in, C.Betti, L’Opera Nazionale Balilla e l’educazione fascista, Firenze, La Nuova Italia, 1984, p.XIV. A conferma di questa interpretazione cito, fra gli altri, G.Genovesi : “Il fascismo, non solo per la scarsa propensione teoretica della sua classe dirigente, ma proprio per le stesse finalità di coinvolgimento emotivo delle masse e di mantenimento del potere a prescindere da qualsiasi merito, non comprende e non può comprendere una simile costruzione meritocratica. Accetta e fa propria la riforma perché non ha nessuna alternativa coerente e difendibile”. G. Genovesi, Storia della scuola in Italia dal Settecento a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1998, p.125. Già P.Gobetti nel 1923 affermava “La riforma Gentile è più reazionaria che fascista. Le due cose si possono distinguere. La reazione fascista ha un colore latino, sovversivo, futurista. Gentile ha imposto alla scuola un abito lugubre, clericale, bigotto, un dotttrinarismo saraceno. Infatti come ministro si è dimostrato dogmatico, autoritario, dittatore di provinciale inaffidabilità…ministro di anacronismo”.P. Gobetti, I miei conti con l’idealismo attuale, in “Rivoluzione liberale”, 1 gennaio 1923,

11 Per una più ampia e diffusa argomentazione rimando ai testi di . E. Agostinone, La più fascista delle riforme fasciste, Roma, Partito socialista unitario italiano, 1925; E. De Fort, La scuola elementare dall’Unità alla caduta del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1996; J. Charnitzky, Fascismo e scuola. La politica scolastica del regime (1922-1943), Firenze, La Nuova Italia, 1996; M. Bellucci e M. Ciliberto, La scuola e la pedagogia del fascismo, Torino, Loescher, 1978; G. Genovesi, Storia della scuola in Italia dal settecento ad oggi, Roma –Bari, Laterza, 1998; Giorgio Chiosso [et al.], Opposizioni alla riforma Gentile, Torino, Centro studi Carlo Trabucco, 1985; G. Spadafora (a cura di), Giovanni Gentile. La pedagogia. La scuola, Armando, Roma, 1997.

12 Interessanti in proposito le parole di Croce: “Caro Giovanni, […] 1) le riforme che vuoi fare, i tagli ecc. nella scuola media, falle presto. Qui a Napoli l’opposizione cresce e si organizza, specie nel fascio, che mi dicono mandi memoriali a Mussolini contro di te, contro il Codignola, ecc., e certo si va procurando aderenti. […] Se si lascia fare, ti ridurranno all’impotenza, cioè ti costringeranno a restringere sempre più l’iniziale programma. […] Superfluo dirti che il fenomeno dell’opposizione che si organizza è stato la tua circolare per l’insegnamento religioso nelle scuole. E pi il primo momento di paura e di docilità paurosa va passando; e si spera che non si faccia nulla delle riforme annunziate o si vuol ridurle a quasi nulla, continuare nelle beate abitudini. Dicono che si liberarono di me e che si libereranno anche di te” B. Croce, Lettera a Giovanni Gentile 1896-194, a cura di A. Croce, Mondadori, Milano, 1981, Doc. 944, lettera del 4/III/1923, pp.635-636.

13 G. Gentile, Il problema scolastico del dopoguerra, Napoli, Ricciardi, 1919, p.5.

14 “Costoro non sono nati agli studi; anzi fruges consumere”. G. Gentile, La riforma della scuola media Roma, Unione cooperativa, 1906, p.12.

15 Già Croce si era espresso in tal senso, quando ministro della Pubblica Istruzione, aveva dichiarato: “il pregiudizio è che il beneficio derivante dall’istruzione sia tanto maggiore quanto più grande sia il numero degli iscritti … Io non credo, e non credono con me quanti hanno dato alla scuola opera e affetto, che giovi il maggior numero di discenti; bensì la migliore qualità e attitudine di questi. Non tanto è bene gittare molti semi, quanto l’assicurarsi che la terra che li raccoglie abbia gli alimenti per far nascere e prosperare le piante. Diremo che la presenza di tali giovani nelle scuole arrechi utilità al paese? O non diremo piuttosto che dal non aver eliminato costoro derivi un grave danno all’erario costretto a sopportare spese che non recano frutti, un danno grave alla scuola in cui l’insegnante deve abbassare il suo insegnamento al loro livello, con danno dei migliori e più adatti? […] i discenti sia a mano a mano prescelti con più severa selezione, in modo da riunire nelle nostre scuole quanto di meglio è nella gioventù studiosa ”. B. Croce, Le riforme degli esami e la sistemazione delle scuole medie, Firenze, La Voce, 1921, pp.67-68.

16 G. Gentile, Opere complete, a cura della Fondazione Giovanni Gentile, per gli studi filosofici, Firenze, Sansoni, 1954-1995, vol.IX, p.24.

17 G. Gentile, Il problema scolastico…, op. cit. p.26.

18 Il primo riferimento è relativo alle figure di B. Croce, E. Codigonola, G.L. Radice, i quali in modi, tempi e forme diversi furono maestri (Croce),collaboratori e critici del pensiero e dell’opera di Gentile. Ricordo inoltre che G. L.Radice, nominato direttore generale dell’istruzione elementare da Gentile (1922-1924) fu l’autore dei nuovi programmi per la scuola elementare (O.M. 11novembre 1923 in “Bollettino ufficiale della pubblica istruzione”, Roma, 22 novembre 1923, n.51. Ora consultabili anche in E. Catarsi, Storia dei programmi della scuola elementare, Firenze, La Nuova Italia, 1990, pp.313-343), e diresse i lavori di una interessante indagine sulla situazione della scuola elementare (Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale dell’Istruzione elementare, Relazione sul numero, la distribuzione ed il funzionamento delle scuole elementari, in “Bollettino ufficiale della Pubblica Istruzione”, Roma, voll.II, a.L, n.43, 11/10/ 1923). E. Codignola partecipò alla riforma per la parte relativa alla trasformazione della scuola normale, per la formazione dei maestri, in Istituto magistrale. Per una prima lettura confronta il volume di A. Carlini (a cura di), Il pensiero pedagogico dell’idealismo, Brescia, La Scuola, 1958.

19 “La scuola popolare è funzione essenziale dello Stato.[…] Noi siamo lo Stato e lo Stato è noi. E se lo Stato è noi, O signori, come può lo Stato non educarci, cioè non educarsi?… Se lo Stato è in quanto si fa, e se non si può fare se non da chi sappia leggere e scrivere e sia almeno capace di eleggere i suoi rappresentanti, e prendere parte alla vita pubblica, l’istruzione del popolo voi vedete che è il presupposto di ogni altra funzione dello stato stesso, come l’alfabeto è il battesimo di ogni uomo civile”. G. Gentile, Educazione e scuola laica, Firenze, Vallechi, 1921, p164. Già pubblicato come G. Gentile, La scuola primaria di Stato. Discorso tenuto in Castelvetrano 7/4/1907, Palermo, Sandron, 1907

20 Per quanto attiene la tematica dell’introduzione dell’esame di stato confronta .G. Tognon, Benedetto Croce alla Minerva. La politica scolastica italiana tra Caporetto e la marcia su Roma, Brescia, La Scuola, 1990.

21 “Lo Stato, non è intollerante: non professa in modo perentorio e assoluto una religione sua. Ma ammette invece e adotta la filosofia, nella sua libere vita di critica e ricostruzione perenne, e la religione assume come grado e primo momento indispensabile di questo lavoro interiore della ragione. Lo stato così concepito è lo Stato più libero e più liberale che si possa concepire. Non ha, si badi bene, in quanto Stato, ragione di prescielgliere una piuttosto che un'altra forma di religione. …Lo Stato non rinunzia alla sua funzione educativa, per cerderla alla Chiesa; anzi fa della Chiesa organo suo, risolvendola in sé” G. Gentile, Educazione e …, op.cit., pp.137-138. Rispetto a ciò, i cattolici non condividevano la posizione idealista che considerava la religione in senso strumentale e storicistico, come momento della formazione, ma ritenevano positivo che l’impostazione laica, distintiva del precedente periodo risorgimentale e liberale, fosse comunque stata rimossa .

22 Mussolini infatti nel 1923 approvò il Programma del gruppo di competenza per la scuola ( pubblicato sul “Resto del Carlino” il 9 gennaio 1923) che riconosceva la funzione etica dello stato da esercitarsi in primo luogo nell’educazione nazionale e la supremazia degli studi classici-umanistici quale canale di formazione della nuova classe dirigente.

23 J.Charnitzky, op.cit., p.191.

24 D.Ragazzini,Tempi di scuola … op.cit., p.119.

25 J. Charnitzky, op.cit., p.3.

26 A. Antonelli, Note di esperienza educativa, Pavia, Bizzoni, 1930, p.3.

27 Ibidem, p.211.

28 R.Gentili, op.cit., p.222.

29 La reazione di Gentile fu dovuta soprattutto al fatto che Fedele concesse una terza sessione degli esami di stato per coloro che erano stati bocciati, inoltre nel 1926 concesse corsi facoltativi di religione per l’insegnamento medio.

30 D.Ragazzini, Tempi di scuola…op.cit, p.143. In tale ottica deve essere letta la legge 3/4/1296, n.2247 Istituzione dell’Opera Nazionale Balilla, per l’assistenza e l’educazione fisica e morale della gioventù. La storia di questa organizzazione, che ebbe un peso rilevante per la vita politica in senso ampio del periodo, a causa proprio della sua importanza e complessità non può essere oggetto di questo lavoro. Rimando al testo di C.Betti, L’Opera Nazionale…op. cit.

31In relazione a ciò, oltre i R.D. più famosi attraverso i quali mosse il processo di progressiva fascistizzazione della scuola (R.D.22 gennaio 1925 n.432, T.U. delle leggi sulla istruzione elementare, post elementare e delle opere di integrazione; R.D. 5 febbraio 1928, n.577, nuovo T.U., R.D. 26 aprile 1928, n.1297, Regolamento generale della istruzione elementare), vorrei qui citare alcune circolari dai titoli esplicativi:19 ottobre 1925, n.102 Terzo anniversario della Marcia su Roma-Celebrazione nelle scuole, 2 gennaio 1926, n.1 Saluto romano fascista nelle scuole, 14 dicembre 1926, n.101 (anno V), Datazione della rivoluzione fascista negli atti ufficiali; 21 dicembre 1926, n.104 Emblema del Fascio Littorio, su tutti gli edifici governativi.

32 Un ingegnere fino ad allora Ministro dell’economia, che durante questo ministero aveva sostenuto la necessità di una stretta correlazione fra sistema formativo a professione.

33 “ E’ forse meglio in grado di conoscere i bisogni e le necessità della vita economica italiana e far convergere a quei bisogni e a quelle necessità le direttive e gli sforzi della scuola nazionale” ,Le dichiarazioni del Capo del Governo sui mutamenti alla Minerva, in “ La Nuova ScuolaItaliana”, a.V, n.42, 31 luglio 1928.

34 R.D.L.17 giugno 1928, n.1314, divenuto poi legge il 20 dicembre 1928, n.3230. La normativa riguardava l’ampio e variegato ramo dell’istruzione tecnico-professionale nel suo complesso (istituti industriali, scuole di avviamento, istituti superiori di scienze economiche e commerciali, istituti commerciali, scuole commerciali, istituti superiori agrari).

35 R.D. 7 gennaio 1929, n.5 Norme per la compilazione e l’adozione di testo unico di stato per le singole classi elementari, il provvedimento doveva diventare esecutivo già per l’anno scolastico 1930/31. Il testo doveva essere rivisto ogni tre anni ad opera di una apposita commissione; allo scadere del primo triennio il testo non subì alcuna modifica in quanto ancora perfettamente rispondente alle esigenze del regime. Le prime modifiche furono successive al 1935 per la necessità di adeguare i libri di testo alla nuova realtà imperiale, alla politica razziale e infine alle direttive della Carta della Scuola.

36 “La Nuova Scuola Italiana”, a.VI, n.35, 2 giugno 1929, pag.VII.

37 Belluzzo aveva il preciso compito di provvedere alla riforma della scuola post elementare, per modificarla in modo da renderla più vicina alle necessità di sviluppo economico dell’Italia; con la legge 7 gennaio 1929, n.8, soppresse i corsi integrativi di avviamento professionale, ed insieme alla scuola complementare, li fuse nella nuova scuola secondaria di avviamento al lavoro. Scopi, finalità di questa erano: prolungare l’insegnamento fino al completamento dell’obbligo, preparare i giovani ad un possibile lavoro, formare quei giovani che intendevano poi proseguire gli studi, nelle scuole agricole, commerciali o industriali.

38 V. Pirro, op.cit, p.436.

39 R.D.12 settembre 1929 n.1661, con il quale venne modificato il nome del Ministero della Pubblica Istruzione in Ministero della Educazione Nazionale, R.D. 14 novembre 1929, n.1992 , passaggio dell’ O.N.B.e delle Piccole Italiane alla dipendenza del M.E.N.

40 J.Charnitzky, op.cit.,p.425.

41R.D. 1 luglio 1933, n.1175.

42 “Era, in realtà, una inderogabile esigenza dello Stato fascista, che la Scuola elementare, presupposto e base della educazione che lo Stato fascista considera come sua massima funzione etica e politica fornire a tutto il popolo italiano, ricevesse finalmente quella uniformità di indirizzo e quella unità di direzione che solo possono assicurarne la perfetta esigenza ai fini unitari e totalitari del Regime”, La scuola elementare in Regime Fascista, in “ Annali dell’Istruzione Elementare”, Firenze, Le Monnier, a. IX, n..5-6, 12/1934-XIII.

43 D. M. 8 settembre 1934 “Approvazione dei programmi di studi, norme e precisazioni didattiche per la scuola elementare”. C.f.r “Gazzetta ufficiale” 30 ottobre 1934, n.232. Per quanto riguarda l’analisi comparata dei programmi con quelli del 1923 vedi G. Lombardo Radice, Esame dei Programmi della scuola elementare, Palermo, Sandron, 1936; per uno studio critico su questa comparazione D. Ragazzini, Tempi di scuola …op.cit, pp. 118-136.

44 La frase inserita nei programmi prima della premessa è dello stesso Mussolini.

45 Ibidem, p.146.

46 F. Ercole, La scuola è fascista, in “Scuola e cultura. Annali della istruzione media”, an.X, novembre-dicembre 1934, quaderno VI, pp.482-483.

47 Non può e non deve sfuggire che la scelta di tale termine è direttamente collegata a quel più ampio indirizzo politico ed economico che, negli stessi anni, il governo fascista promuoveva. La bonifica culturale, esercitata attraverso forme più o meno violente, era in soluzione di perfetta continuità con le attività di bonifica agraria, e le scelte di autarchia industriale che il governo attuava.

48 La nuova organizzazione dell’amministrazione prevedeva fra l’altro, la nomina esclusivamente governativa di ogni membro, l’eliminazione di ogni residua autonomia universitaria, l’avocazione al ministro di modifiche relative a materie e a programmi di insegnamento. In questo senso De Vecchi predispone: l’epurazione di testi di autori stranieri, la lettura di opere e discorsi di Mussolini, lo studio dell’ordinamento corporativo e della dottrina fascista dello stato, la revisione dei programmi di storia, il controllo statale sui testi delle scuole medie.

49 L.Cremaschi, op.cit., p.193.

50 Già ministro delle corporazioni dal 1929 al 1932 e fautore della Carta del Lavoro

51 In tal senso deve leggersi la nascita della Gil, Gioventù italiana del Littorio, con il RD 27 ottobre n.1839 sotto la direzione del segretario del PNF e il TU 15 novembre 1983 n.1779 “Integrazione e coordinamento in un testo unico delle norme già emanate per la difesa della razza nella scuola italiana”:
Art1 “A qualsiasi ufficio o impiego nelle scuole di ogni ordine o grado, pubbliche o private, frequentate da alunni italiani, non possono essere ammesse persone di razza ebraica … ”
Art.2 “ Delle Accademie, …non possono fare parte persone di razza ebraica … ”
Art.3 “Alle scuole di ogni ordine o grado, pubbliche o private, frequentate da alunni italiani, non possono essere iscritti alunni di razza ebraica …razza ebraica che professino la religione cattolica nelle scuole elementari e medie dipendenti delle autorità religiose”
Art.4 “ Nelle scuole d’istruzione media frequentate da alunni italiani è vietata l’adozione di libri di testo di autori di razza ebraica …anche collaborazione di più autori, uno dei quali sia di razza ebraica”
Art.5 “Per i fanciulli di razza ebraica sono istituite, a spese dello Stato, sezioni speciali di scuole elementari…non inferiore a 10. Le comunità israelitiche possono aprire, con l’autorizzazione del Ministro per l’Educazione nazionale, scuole elementari…il personale potrà essere di razza ebraica; i programmi di studio saranno quelli stessi stabiliti per le scuole frequentate da alunni italiani; i libri di testo saranno quelli di Stato, con opportuni adattamenti, approvati dal ministro per l’Educazione nazionale”
Art.6 “Scuole d’istruzione media per alunni di razza ebraica potranno essere istituite da comunità israelitiche o da persone di razza ebraica… il personale potrà essere di razza ebraica e potranno essere adottati libri di testo di autori di razza ebraica”
Art.8 “Dalla data di entrata in vigore del presente decreto il personale di razza ebraica …di cui al precedente art.1 è dispensato dal servizio…”
Art.9 “Per l’insegnamento nelle scuole elementari e medie per gli alunni di razza ebraica saranno preferiti gli insegnanti dispensati dal servizio….”
Art.10 “In deroga al precedente art.3 possono essere ammessi in via transitoria a proseguire gli studi universitari studenti di razza ebraica già iscritti nei passati anni accademici”
La normativa antisemita e razzista era stata introdotta nel 1938 con il RDL 23 settembre, n.1630, cui aveva fatto seguito l’articolo “Il fascismo e i problemi della razza” pubblicato su “Il Giornale d’Italia” meglio noto come Il Manifesto degli scienziati razzisti o Carta della Razza.
Il testo unico seguiva una serie di atti normativi fra i quali ricordo: circolare 6 agosto 1938 n.33 del ministro Bottai per la diffusione della rivista “La difesa della razza” (primo numero 5 agosto 1938);
circolare 9 agosto 1938 n.12336 del ministro Bottai per il censimento di tutto il personale docente e non docente completo di schede[risulteranno 128 professori universitari; 316 professori di scuola media; 353 maestri elementari); e divieto di incarichi di supplenza ad insegnanti ebrei; circolare 12 agosto 1938 n.12380 sul divieto di adozione di libri di testo di autori ebrei ; circolare 18 agosto 1938 n.12495 sul divieto di iscrizione alle scuole di ogni ordine e grado per gli studenti ebrei stranieri; RDL 5 settembre 1938 n.1390 “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista”; RDL 23 settembre 1938 n.1630 “istituzione di scuole elementari per fanciulli di razza ebraica”; circolare telegrafica 12 ottobre 1938 del ministro Bottai sul divieto di iscrizione alle scuole di ogni ordine e grado per gli studenti ebrei
nelle scuole statali; circolare 7 dicembre 1938, n.15169 nella quale si invitavano i provveditori a gli Studi a segnalare scuole od istituti eventualmente intitolati a persone di razza ebraica, facendo al tempo stesso le opportune proposte per le sostituzioni.

52 G. Canestri, Centoventanni di storia della scuola 1861/1983, Torino, Loescher, 1973, pp.53-54.

53 G. Bottai, La Carta della Scuola, Milano, Mondadori, 1939. Il testo completo si trova anche in M. Bellucci e M. Ciliberto, La scuola e la pedagogia del fascismo, Torino, Loescher, 1978.

54 RD 1 luglio 1940, n.889.

55 Il primo studio è quello di E. Leso, Aspetti della lingua del fascismo. Prime linee di una ricerca, in M. Gnerre, M. Medici, R. Simone, Storia linguistica dell’Italia del Novecento. Atti del quinto convegno internazionale di studi, Roma 1-2- giugno 1971, Roma, Bulzoni, 1973, pp 139-158. L’autore scrive : “Sul tema ‘fascismo e lingua italiana’ non esistono, è noto, studi diretti e sistematici e mancano anche spogli e ricerche preliminari”, p139.

56 N. Tranfaglia, Lab. it., op.cit, p.115.

57 G.Quazza (a cura di), Fascismo e società italiana, Torino, Einaudi, 1973, p.8. Ancora: “L’interesse nuovo con il quale si è guardato al fascismo a partire dagli anni 60 è in concomitanza con processi politici più generali. In realtà, affrontare l’analisi approfondita del regime non era soltanto un compito storico , ma diventava automaticamente un problema politici nella misura in cui agli interrogativi posti dalla storia del passato regime diventa anche la risposta ad interrogativi sul presente della situazione italiana”. E. Collotti, Lo stato totalitario, in G. Quazza [et al.] Storiografia …, op.cit, p.27

58 Così come precisa lo stesso autore in una postilla introduttiva la cultura cui si riferisce è esclusivamente quella accademica. Mi sembra un chiarimento particolarmente significativo in relazione al tipo di discorso e di analisi presente in questo mio elaborato.

59 “Per quanto riguarda il contenuto della nuova cultura, ciò che si chiamerà poi la “dottrina del fascismo”, il regime non ebbe un pensiero originale: quel che esso fuse o confuse nel suo crogiuolo derivava, com’è stato più volte detto da correnti spirituali e ideali che si formarono -e non solo in Italia- nel primo decennio del secolo e il cui comune denominatore non fu già in quel che affermavano ma in quel che negavano, cioè la democrazia e il socialismo.” N. Bobbio, La cultura e il fascismo, in G. Quazza (a cura di), Fascismo….., op. cit., p.232.

60 Ibidem, op.cit., p. 243.

61 Ibidem, p.246.

62 Per la lista completa delle tipologie degli intellettuali confronta N. Bobbio, op.cit., p.221.

63 N. Tranfaglia, Intellettuali e fascismo:appunti per una storia da scrivere, in O. Del Buono (a cura di), Eia, eia,eia, alalà! La stampa italiana sotto il fascismo, Milano, Feltrinelli, 1971,p.VII e p.VIII.

64 “Nella prefazione Tranfaglia distingue due interpretazioni correnti del rapporto fra intellettuali e fascismo: quella secondo cui il fascismo sarebbe stato, rispetto alla cultura italiana, un fenomeno epidermico e quella opposta che spiegherebbe ogni cosa con il tradimento degli intellettuali. Ritiene che entrambe siano sbagliate. Al contrario io ritengo che, non essendo affatto incompatibili (il ‘tradimento’ non costituisce una ‘nuova cultura’) siano entrambe giuste. Proprio perché la maggior parte degli intellettuali che ostentarono il loro fascismo erano dei ‘traditori’ e sapevano di esserlo (meglio ‘rosso’ che ‘morto’), la cultura tradizionale ne fu poco o punto toccata” N. Bobbio, op. cit., p.220, n.1.

65 N. Tranfaglia, in O. Del Buono, op.cit., pp. VIII/IX.

66 “Alla tesi cui accede Tranfaglia, della continuità tra prefascismo e fascismo, tra fascismo e post fascismo, io continuo a dar credito e quindi a portare argomenti alla vecchia tesi della continuità tra prefascismo e postfascismo attraverso e sotto il fascismo”. N. Bobbio, op. cit., p.220, n.1.

67 E. Tannembaum, L’esperienza fascista. Cultura e società in Italia dal 1922 al 1945, Milano,Mursia, 1974. Traduzione di A. Sparagni. Ed. originale The Fascist Experience. Italian Society and culture 1922-1945, Ney York, Basic Books, 1972.

68 P. V.Cannistrato, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Roma-Bari, Laterza, 1975. Traduzione di G Ferrara.

69 A. Asor Rosa, Il fascismo: la conquista del potere (1919-1926 ), e Il fascismo: il regime (1926-1943) in La cultura, in R. Romano, C. Vivanti (a cura di) Storia d’Italia, vol. IV, Dall’unità ad oggi, tomo secondo, Torino, Einaudi, 1975.

70 G. Quazza, Resistenza…op.cit.,, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 70.

71 L. Rapone, Antifascismo e storia d’Italia, in E. Collotti (a cura di), Fascismo e antifascismo. Rimozioni, revisioni, negazioni, Roma-Bari,Laterza, 2000, p.223.

72 N. Tranfaglia, Lab. it., op.cit., p. 113.

73 “…aprire un dialogo, o almeno un canale di comunicazione più ravvicinato tra cultori di discipline diverse interno a temi di interesse comune. … i rapporti fra linguistica, storia della lingua e dei dialetti, storia sociale ……Un incontro tra temporalità della storia e temporalità della lingua”., G.C. Jocteau, P. Agosto, M. Chieregato, (a cura di), Parlare fascista. Lingua del fascismo, politica linguistica del fascismo, in “Movimento operaio e socialista”, Genova, Centro Ligure di storia sociale, anno VII, n.1, Gennaio-aprile 1984, p.4.

74“Principio giuridico-politico applicato secondo il quale lo stato ha il diritto di consolidare l’uso linguistico soprattutto pubblico” L. Renzi, La politica linguistica della rivoluzione francese. Studio sulle origini e la natura del giacobinismo linguistico, Napoli, Ligouri, 1981, p.81.

75Per una prima conoscenza del tema confronta T. De Mauro, Idee e ricerche linguistiche nella cultura italiana, Bologna, Il Mulino, 1980; M. T. Gentile, Educazione linguistica e crisi di libertà, Roma, Armando, 1966.

76 E. Leso, Aspetti di …., op.cit, .p.140

77 “Il tentativo, riproposta e rafforzata in senso nazionalista, la vecchia idea soprattutto romantica dell’osmosi fra lingua e nazione, base teorica di ben note battaglie puriste, fu perseguito in parecchi modi”.E Leso, idibem, p140.

78 Per quanto riguarda l’insieme dei provvedimenti in tal senso, relativi al campo strettamente educativo, confronta la parte successiva del lavoro.

79 Confronta il saggio di E.Leso, Aspetti della lingua del fascismo…op.cit., pp 139-158 e quelli di E. Leso, Osservazioni sulla lingua di Mussolini, pp.15-62; M. A. Cortellazzo, Mussolini socialista e gli antecedenti della retorica fascista, pp.63-72 nel volume E. Leso, M. A. Cortellazzo, I. Paccagnella, La lingua italiana e il fascismo, Bologna, Consorzio Provinciale pubblica lettura, 1977,

80 E. Leso, M. A. Cortellazzo, idibem, p.7.

81 F. Foresti, Proposte interpretative e di ricerca su lingua e fascismo: “la politica linguistica”, in E. Leso, M. A. Cortellazzo, op.cit., p122.

82 La formula “autarchia linguistica” fu coniata da Bruno Migliorini nel 1937 e poi ripreso da Antonio Lo Jacono nel 1939 nella prefazione al Dizionario degli esotismi, pubblicato sulla rivista “Tempo” che così intitolò una rubrica di proposte di sostituzioni

83 “scarsa sistematicità dei criteri su cui essa si basava e mostra che, nonostante il controllo del regime sugli strumenti culturali e sui mezzi di comunicazione, la campagna riuscì solo in minima parte nei suoi intenti proscrittivi e prescrittivi….motivate prevalentemente da considerazioni propagandistiche aventi lo scopo di accrescere il senso di compattezza nazionale necessario alla sempre maggiore centralizzazione operata dal regime ”. M. Cicioni, La campagna per ‘l’autarchia della lingua’ una ‘bonifica’ fallita, in G.C. Jocteau, P. Agosto, M. Chieregato, (a cura di), op. cit., p. 93.

84 Riporto in nota solo alcuni esempi: per le scritte pubbliche:Dec. Pref. 26 novembre 1922 ,n .21083 (Venezia Giulia) uso della lingua nelle scritte pubbliche che stabilisce la priorità della lingua italiana nei testi bilingui come cartelli, insegne, tariffe; RD 11 febbraio 1923, n.352, art.4 “Applicazione tassa sulle parole straniere delle insegne”; RDL 28 giugno 1938 n.1162 “Norme dirette alla difesa del prodotto italiano contro la illecita concorrenza del prodotto straniero”; RD 23 dicembre 1940, n. 2042 “Divieto nell’uso di parole straniere nelle intestazioni delle ditte e nelle varie forme pubblicitarie”. A tal fine venne costituita nel 1941 una Commissione per l’italianità della lingua, che produsse 15 elenchi di circa 1400 esotismi, suddivisi in 8 categorie, pubblicati sul “Bollettino”: Tollerati perché radicati nell’uso comune (bar) o perché avevano dato origine a derivati con suffissi italiani (golf- golfino); adattamenti grafici e morfo- fonetici (iogurt, giàz ); traduzione mediante calchi semantici (pellicola -film); traduzione mediante perifrasi (lavanda per capelli- shampoo); estensione dell’area semantica di termini preesistenti in italiano (rimessa-garage, carovana-roulotte); recupero termini popolareschi e dialettali; riesumazione termini medioevali e rinascimentali (nord-settentrione/ tramontana, sud –mezzogiorno/austro); neologismi formati secondo i principi della “glottotecnica” (investigatore-detective, campeggio- camping) , l’integrazione solo nei casi di: adattamenti grafici e morfo- fonetici; termine straniero poco familiare; per la toponomastica: RD 29 marzo 1923, n.800, determinava la lezione ufficiale dei nomi dei comuni e di altre località dei territori annessi con sostituzioni proposte da una Commissione istituita con RD 20 gennaio 1921 con il compito di proporre una toponomastica ufficiale per comuni, frazioni e altri luoghi abitati, suddvisa in due sotto commissioni:Venezia-Giulia; Trentino-Alto Adige; per l’onomastica: RDL 10 gennaio 1926, n.17 per l’Alto Adige; 31 maggio 1928, n.1367 per la Venezia Giulia; per gli uffici pubblici :RD 11 gennaio 1923, n.9. con cui si estendono alle nouve Province la legge ed il regolamento comunale e provinciale che prevede la obbligatoria conoscenza lingua italiana per l’ impiego di segretario comunale; RDL 15 ottobre 1925 n.1796 “Obbligo dell’uso della lingua italiana in tutti gli uffici giudiziari del Regno, salvo la città di Fiume”, per i locali pubblici (RD 5 dicembre1938, n.2172 “Denominazioni straniere locali di pubblico spettacolo”. Per quanto riguarda i provvedimenti normativi relativi alla scuola confronta il prossimo paragrafo di questo lavoro.

85 Rubriche su quotidiani es: Una parola al giorno su “Gazzetta del popolo” dal marzo 1923 al marzo 1933, Controsanzioni linguistiche su “Domenica del Corriere in”; Veline: campagna antidialettale proposta dalla stampa mediante disposizione del Ministero della Cultura popolare, fin dal 1931, attraverso un elenco di Direttive per la stampa. Nonstante questo intervento contro il dialetto “la superficialtà di un’offensiva contro il dialettoè confermata dalla libertà e dalla tolleranza dimostrate verso gli studiosi di dialettologia e tradizioni popolari…la stessa incoerenza della linea adottata dal fasismo poteva giusitficare la coesistenza di entrambi gli atteggiamenti: perché se, ufficialmente erano combattute le tradizioni e le parlate regionali, altrettanto ufficialmente le più alte cariche dello stato e del partito patrocinavano, inauguravano e presiedevano i vari congressi nazionali delle arti e tradizioni popolari”. M. Cortellazzo, Il dialetto sotto il fascismo, in G.C. Jocteau, P. Agosto, M. Chieregato, (a cura di), op.cit.,p.109 e p.112. Per quanto riguarda i provvedimenti normativi relativi alla scuola confronta il prossimo paragrafo di questo lavoro.

86 G Klein, La politica linguistica del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1986; D. Ragazzini, I programmi della scuola elementare durante il fascismo. Il caso dell’educazione linguistica, in “Orientamenti pedagogici”, SEI, Torino, n.32, 1985, pp.1087-1117.

87Dialetto e grammatica risultano essere aspetti centrali dell’educazione linguistica e fra loro strettamente collegati. Per quanto riguarda il particolare taglio di questo lavoro, risulta però più interessante analizzare gli studi condotti in merito al dialetto piuttosto che alla grammatica. Rispetto al concetto e quindi all’insegnamento della grammatica ricordo, sinteticamente, che fra i programmi del 1923 e quelli del 1934 appare una sostanziale diversità. Lombardo Radice parlava di una grammatica vissuta da contrapporre alla grammatica normativa perché sosteneva “abbiamo imparato ad intenderci, in nu modo molto semplice: intendendoci; non l’astratta grammatica ma la comune vita ci ha dato una lingua comune”. Nota è infatti l’affermazione “La grammatica non è quindi un quid prius, né un quid posterius rispetto alla lingua; ma essa è un processo che coincide coll’acquisto della lingua, ed ha una storia, ch’è la stessa storia della lingua ” G. Lombardo Radice, Lezioni di didattica e ricordi di esperienza magistrale, Palermo, Sandron, 1913, cito dalla prima ristampa del 1924, p.172. Nei programmi del 1934 al contrario la grammatica è considerata come un insegnamento normativo e formalizzato, alle ‘nozioni’ dei precedenti programmi si sostituiscono gli ‘esercizi’. Può essere interessante confrontare anche le riflessioni in tal senso di A. Gramsci espresse nel Q.29.

88 Già citati nel primo capitolo di questo lavoro.

89 Lo studio del rapporto fra dialetto/i e formazione di una lingua nazionale occupa un posto rilevante all’interno del dibattito culturale sviluppatosi in Italia all’indomani della unificazione territoriale, che coinvolse direttamente linguisti e letterati, ma anche uomini di governo. Per un primo approfondimento sul tema rimando ai testi di T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Roma- Bari, Laterza, 1976, 2 voll., e Idee e ricerche linguistiche nella cultura italiana, Bologna, Il Mulino, 1980. In quest’ultimo l’autore dedica un intero capitolo alla figura di G.Lombardo Radice (cap.9. G. Lombardo Radice e l’educazione linguistica), e analizza il rapporto dell’intellettuale con le posizioni espresse da Croce, Manzoni, Ascoli e De Sanctis.

90 Nel 1925 la Commissione ministeriale per i libri di testo, presieduta da G. lombardo Radice, approva la collana di libri di testo intitolata “Dal dialetto alla lingua”, che prevedeva tre diversi piccoli manuali rispettivamente per le classe 3°, 4° e 5° elementare.

91 Il programma prevedeva per le classi 1° e 2° elementare: studio del dialetto e della cultura popolare; per la classe 3° elementare: “nozioni pratiche di grammatica ed esercizi grammaticali con riferimento al dialetto”; per la classe 4° elementare: “piccoli studi lessicali: a) famiglie di parole nella lingua italiana, b) annotazioni di frasi e parole dialettali di difficile traduzione” ; per la classe 5° elementare: “nozioni organiche di grammatica italiana con particolare riguardo alla sintassi e sistematico riferimento al dialetto (novelline e canti popolari)”. Inoltre per le classi 3°, 4°, 5° elementare era previsto l’utilizzo di un sussidiario per la cultura regionale.

92 G. Lombardo Radice, Lezioni di didattica …op.cit., p. 173. Ed ancora “Ma il dialetto non deve essere disprezzato: deve essere anzi gustato nelle sue manifestazioni più gentili ed artistiche (canti, novelle popolari, proverbi, ecc.) …Dato sfogo al dialetto l’esercizio dell’italiano non è disperso ma avvalorato ed arricchito” E. Codignola (a cura di), G. Lombardo Radice, Didattica viva. Problemi ed esperienze, Firenze, La Nuova Italia, 1951, cito dalla 7° ristampa 1969, p.59. La frase era inserita in una circolare ai direttori e ai maestri dell’ Associazione per il Mezzogiorno, il 15 gennaio del 1925.

93 M. Cortelazzo, Il dialetto … op.cit. ,p.109.

94 RD 31 dicembre 1925 n.2473 “Programmi di ammissione, di licenza, di maturità e di abilitazione per gli istituti medi di istruzione” .

95 DM 28 settembre 1934 “Approvazione dei programmi di studio, norme e prescrizioni didattiche per le scuole elementari”, confronta capitolo…di questo lavoro.

96 D. Ragazzini, I programmi della scuola…op.cit. ,p.1110.

97 G. Klein, La politica linguistica…op.cit., p. 53.

98 I provvedimenti riguardavano le popolazioni delle nuove province annesse dopo il primo conflitto mondiale. Con il trattato di Saint-Germain del 19 settembre 1919 furono annessi territori dell’ Alto Adige e del Trentino (riuniti nella c.d. Venezia tridentina) le contea di Gorizia e Gradisca, la città di Triste e i territori dell’Istria e del Tarvisio (riuniti nella c.d. Venezia Giulia); successivamente con il trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 la città di Zara e con gli accordi di Roma del 1924 la città di Fiume, furono annesse alla provincia della Venezia Giulia. Un diverso atteggiamento fu invece riservato alle minoranza di lingua francese della Valle d’Aosta, in relazione alla rilevanza storica della lingua stessa. “…l’ottuosità e la crudeltà fasciste si accanirono soprattutto sui valdostani, i sud-tirolesi, gli sloveni e i croati ” S. Salvi, Le lingue tagliate, Milano, Rizzoli, 1975, p. 72.

99 Art. 4 del R.D. 1 ottobre 1923 n.2185 “Ordinamento dei gradi scolastici e dei programmi didattici dell’istruzione”. G. U. 24 ottobre 1923, n.250

100 G. Klein, La politica…op.cit.,p.72.

101 Art. 24 “Nelle scuole nelle quali la lingua di istruzione non è l’italiano, e fin tanto che non sarà l’italiana, a norma del presente decreto, l’insegnamento della lingua italiana è obbligatorio per gli alunni di tutte le classi popolari o cittadine, a cominciare dalla seconda classe della scuola elementare. Gli alunni non possono essere promossi alla classe superiore se non superano anche la prova di lingua italiana. Sono fissate cinque ore settimanali d’insegnamento per i primi tre anni, sei per i seguenti ”.

102 Art.18 “Nessun maestro, munito di diploma o abilitazione rilasciati sotto il regime anteriore all’annessione delle province di cui trattasi, può insegnare in lingua italiana se non possiede la prescritta abilitazione. … ”

103 R.D. 5 febbraio 1928, n.577.

104 G. Kelin, La politica…op.cit., p.78.

105 Per una analisi più completa delle normative adottate rimando alla lettura del testo di G. Klein.

106 La ‘tipologia’ delle scuole catacombe nacque inizialmente in Alto Adige con l’appoggio dei comuni che fornivano locali ed attrezzature. Successivamente il fenomeno si estese anche in Valla d’Aosta e nella Venezia Giulia.

107 G.Klein, La politica…op.cit., p.65.